PADRE TITO AMODEI – GRANDISSIMO PERSONAGGIO DI COLLI A VOLTURNO
10-08-2023 07:14 - PADRE TITO AMODEI – GRANDISSIMO PERSONAGGIO DI COLLI A VOLTURNO
PADRE TITO AMODEI – GRANDISSIMO PERSONAGGIO DI COLLI A VOLTURNO
Scrivere di Padre Tito (Ferdinando Amodei) è semplice e nel contempo difficile in quanto è patrimonio di tutti ed in tanti hanno scritto su di lui. Però come gruppo della Emigrazione Collese nel Mondo che gestisce il sito www.emigrazionecollesenelmondo.it vogliamo, anche se brevemente, dare anche il nostro contributo a questo grandissimo ed umile personaggio che ha dato tanto lustro a Colli a Volturno ed a tutti i collesi residenti e sparsi nel mondo. Nato a Colli a Volturno il 11 Marzo 1926 da Nicola ed Antonia Angelone, durante la sua adolescenza entrò in contatto con alcuni Padri Passionisti che erano a Colli per un periodo di missione e ed ebbero sul ragazzo un influsso particolare segnandolo positivamente. All’inizio degli anni quaranta, entrò nel seminario dei Passionisti, poi a Monte Argentario per il noviziato e poi Firenze. Nel 1953 venne ordinato sacerdote a Roma dedicandosi alla predicazione ed insegnamento. In seguito si dedicò all’arte pittorica e poi alla scultura. Durante la sua lunghissima vita da artista ha partecipato a numerose mostre di cui tante sono state le mostre personali o quelle da lui organizzate . Muore il 31 Gennaio 2018 .
Di seguito abbiamo volutamente riportato alcune ricostruzioni – testimonianze della sua vita, quanto compare su alcune fonti come di seguito:
- sulla pagina wikipedia a lui dedicata,
- una intervista dell’AVVENIRE realizzata da Alessandro Beltrami del 8 marzo 2016,
- Ricordando Tito Amodei di Sandro Sanna
Nota: Le foto sono tratte da Internet e quella del monumento ai caduti a Colli a Volturno dall’archivio privato di Giuseppe D’Acchioli, le altre trasmesse da Marisa Ranieri realizzate nel Maggio 2026 in occasione “della visita della comitiva collese a Padre Tito” organizzata da Michele D’Alessio ed Antonia Ranieri in occasione dei 90 anni di Padre Tito.
“Forte è rimasto il legame con la terra d’origine. In una recente intervista apparsa su La Repubblica scriveva del suo Molise: «Sono nato in provincia di Isernia. I miei erano povera gente. Con una piccola masseria e un po’ di terra da cui ricavare lo stretto necessario. Non c’erano molti discorsi, né libri. A parte la Bibbia, in casa circolava un romanzo che mio padre ci leggeva la sera: Dagli appennini alle Ande. Papà aveva fatto la terza elementare ma col tempo aveva imparato a leggere. Era orgoglioso quando prendeva tra le sue grandi mani il piccolo libro e con voce incerta iniziava il racconto. A volte si stancava. Dopo una giornata passata nei campi non era facile intrattenere i figli.”
Per una conoscenza esaustiva dell’artista consultare il sito web www.titoamodei.org
https://it.wikipedia.org/wiki/Tito_Amodei
https://www.fondazionetitoamodei.it
Tito Amodei, pseudonimo di Ferdinando Amodei (Colli a Volturno, 11 marzo 1926 – Roma, 31 gennaio 2018), è stato uno scultore, pittore, critico d'arte e religioso italiano.
In attività fino alla morte, nonostante l'età avanzata e la malattia di Parkinson che gli condizionò soprattutto l'uso di una mano,[1] ha operato dalla fine degli anni cinquanta prevalentemente come scultore nel campo dell'arte sacra e monumentale.
Attraverso mostre, conferenze e pubblicazioni, ha promosso l'arte sacra attraverso un dibattito aperto alle più innovative forme espressive, sebbene non scevro di controversie[2], portando nella pratica artistica il messaggio del concilio Vaticano II.
Nel corso degli anni, Tito dissolve progressivamente le componenti figurative e concettuali presenti nelle sue opere in favore di un'astrazione geometrica elaborata dalle forme base del cilindro e del piano e dalla ricerca dell'equilibrio prospettico e luministico di pesi e volumi con lo spazio circostante.[3][4][5] Le sue sculture più recenti - con l'eccezione parziale di quelle di committenza religiosa - sono strutture architettoniche in legno e meno frequentemente in bronzo e altri metalli, spesso di grandi dimensioni e commisurate per spazi aperti. Tra le sue opere figurano anche interventi decorativi per monumenti pubblici (come il monumento ai caduti di Colli a Volturno e San Giovanni a Piro) o santuari (santuario di San Gabriele dell'Addolorata).
Nel 2006, si è svolta una mostra dedicata alla sua produzione dal 1979 al 2005, comprendente sculture, disegni e incisioni, presso gli spazi espositivi del polo museale del Vittoriano a Roma.[6] Due sue opere sono conservate nella collezione di arte contemporanea del Palazzo della Farnesina. Altre opere dell'artista - sculture, dipinti, incisioni - sono conservate ai Musei Vaticani, al Museo Staurós di Isola del Gran Sasso d'Italia, allo SMAK di Gand, all'Albertina di Vienna e alla Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow, opera Spazio Forma Provvidenti (Italia, Molise - CB) presso il Maack [7]
Accanto alla produzione scultorea, è da menzionare anche quella grafica, dai disegni a matita su carta alle acqueforti e serigrafie[8] e la scenografia dello spettacolo teatrale "Gilgamesh", del 1999, per la regia di Shahroo Kheradmand.
È morto la mattina del 31 gennaio 2018 nella sua cella ai piedi della Scala Santa in Roma all'età di 91 anni. Le esequie si svolgono il 2 febbraio nella cappella di San Lorenzo in Palatio. È sepolto nel cimitero dei padri Passionisti a Monte Argentario.[9][10][11][12]
La formazione artistica e gli esordi
Abbraccia giovanissimo la vocazione religiosa dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali tenuto dai Padri Passionisti a Colli a Volturno. Tra il 1940 e il 1943, entra in seminario a Nettuno per gli studi ginnasiali e successivamente in noviziato presso il convento dei Passionisti di Monte Argentario dove assume il nome di Tito. Negli stessi anni compie privatamente, come autodidatta, anche le prime esperienze di scultura, pittura e disegno.
Pochi anni dopo si sposta a Firenze per gli studi teologici che si concluderanno a Roma nel 1953 con l'ordinazione sacerdotale, e a Fiesole, nel 1950, conosce il pittore Primo Conti con cui consolida nel tempo una duratura amicizia e che diventerà suo maestro all'Accademia di belle arti di Firenze tra il 1953 e il 1957. Risalgono sempre agli anni dell'accademia anche le frequentazioni, nella villa fiesolana di Conti, della scena artistica fiorentina e il progetto di una pubblicazione antologica sull'iconografia della Passione di Cristo nell'arte contemporanea che si concretizzerà nel 1962 con l'edizione di "50 artisti per la Passione".
Concluso il corso di studi, intraprende l'insegnamento umanistico nei licei della sua congregazione religiosa e parimenti l'attività espositiva che gli frutta i primi riconoscimenti (vince due edizioni del "Premio Costa d'Argento"). Fino al 1962, la sua produzione pubblica è ancora prevalentemente pittorica e confinata nell'ambito locale della provincia grossetana, ma risale all'estate del 1960 l'episodio della vita di Tito che fornisce a Giorgio Saviane lo spunto per il titolo della raccolta "La donna di legno" del 1979 e il soggetto di uno dei racconti che questa include: il minuto frate molisano rinviene sulla spiaggia di Orbetello un enorme tronco d'albero con cui realizza la sua prima scultura ("Il Grande Nudo", 1962-1964), un nudo di donna stilizzato dalla superficie nervosamente e minuziosamente scalpellata.
«Sulla spiaggia approdò un tronco di donna. Si torceva ancora non si sapeva per quali spasimi voluttuosi o di morte. Forse si poteva salvarla; le natiche poderose rivolte al cielo, le reni concave da atleta, la forza che emanava dai resti delle cosce spezzate, facevano sperare. [...] Un fraticello spuntò dall'orizzonte che l'umidità del mattino restringeva attorno alla tragedia.[...] Chi l'avesse uccisa era dunque un mistero, ma, certo, Tito l'aveva fatta rivivere; il tronco fermato nel suo fremito di morte, la testa più in là, sentimentalmente ricostruita, di prima della tragedia. Mi avvicinai meglio al ritratto: sotto al collo vidi improvvisamente risorgere i segni astratti di una realtà inferiore che violentava la serenità di quel volto per una più accesa dimensione. L'aveva dunque anche uccisa, Tito, piccolo ma onnipotente con il suo segno folle di ricerca e di ansia.»
La prima produzione scultorea
Nel 1961, Amodei apre un proprio studio a Firenze e la sua produzione acquista una più precisa connotazione sia dal punto di vista stilistico che da quello ideale e valoriale come espresso nel saggio di introduzione alla succitata antologia sul tema della passione: il dichiarato impegno per la rinascita dell'arte sacra in chiave moderna come espressione indipendente «da ogni soggezione di canone o di maniera e dall'interferenze protettive e vincolanti della società, che gli agevolerà una più immediata rispondenza alle mozioni dello spirito»[13] proprio in quanto "opera sacra" e non un «esclusivo e spicciolo mezzo di devozionale sollecitazione.»[14].
Queste intenzioni si iniziano a cogliere, a partire dagli anni sessanta, nella numerosa serie di "Deposizioni", sia dipinte che scolpite in legno o bronzo, e ne "Il Grande Nudo", tutte opere ancora chiaramente figurative, ma caratterizzate da una progressiva semplificazione del segno ed un'elevata tensione meditativa che «richiama da un lato gli espressionisti e dall'altra i neoprimitivisti alla Barlach».[15] (Appella, 2005)
Nel 1964, alla "Mostra del Documentario d'arte" della Biennale di Venezia, viene presentato "Passione di Cristo nell'arte contemporanea", un documentario del 1963, - tratto dal volume "50 artisti per la Passione" - di cui Tito cura la sceneggiatura e la fotografia.
Sempre nel 1964, con le personali di Prato e Torino - che riporta in catalogo il racconto di Saviane - e la partecipazione alla "II Mostra Nazionale dell'Incisione Sacra" di Firenze, lo scultore molisano ottiene un primo riconoscimento a livello nazionale e viene inserito nei cataloghi "Scultura Italiana Contemporanea" del 1965 (a cura di Gabriele Mandel) e "Arte Contemporanea Italiana" del 1966 (con un testo di Luigi Servolini). Inizia in questi anni la piena attività espositiva e di committenza in Italia e all'estero.[16]
Nel 1966 si trasferisce nell'attuale atelier, situato nel complesso del santuario della Scala Santa a Roma[17], nei locali che dovevano costituire originariamente la nuova cripta mai completata dell'edificio lateranense e che vengono successivamente riadattati per ospitare lo spazio artistico polivalente da lui promosso. Nell'aprile del 1970, con la mostra "Arazzi sulla Passione" di Enrico Accatino, viene inaugurato, accanto allo studio dello scultore, il Centro di Sperimentazione Artistica "Sala 1" e un teatro che svolgono tuttora attività culturali ed espositive nel campo dell'arte contemporanea.
Nel 1974 conosce il pittore cileno Sebastián Matta con cui realizza, a Roma, la mostra "Bella Ciao - Dare alla Vita una Luce". Nel dicembre 1975 organizza, negli spazi espositivi di Sala 1, una personale delle opere a soggetto sacro di Fritz Wotruba ("Wotruba e la dimensione sacra"), a pochi mesi dalla morte dello scultore austriaco.
Nel 1976 si tiene alla Sala 1, la personale "Tito - Le sculture". Alla carica drammatica espressa nelle "Deposizioni"[18], si affianca, per la prima volta, il tema del gioco fantastico che sarà presente anche negli anni ottanta: composizioni in legno e bronzo in cui forme naturali dal significato simbolico (le mele, il pesce, l'uovo, il sole, l'uccello) sono incluse o imprigionate in architetture geometriche che, con i giochi di luce e ombra creati dagli elementi scultorei e i movimenti dell'osservatore, fanno "un uso espressivo della luce".[19]
Le grandi sculture
Nei primi anni 1980, le sue opere mostrano una crescente essenzialità come nella scultura-totem "Albero nuovo" del 1982.[20] «Le mie ultime sculture (1983/84) – come dichiara l'artista, nel 1984, a proposito delle ultime realizzazioni – segnano il punto di arrivo di venti anni di lavoro. (...) Ora è solo il segno che crea un'architettura e qualche volta si impone alla medesima. Ma è un segno che modellato in legno si fa corpo e come tale diventa luce in opposizione costante con la sua ombra, ottenendo un blocco serrato e libero insieme».[21]
In occasione della mostra "Sculture di segni", tenutasi a Roma alla galleria Sala 1 nel 1985, diverrà più esplicita questa nuova concezione della scultura come segno ed architettura: si tratta di opere caratterizzate da una ripetizione ritmica e fitta di elementi lignei che domineranno la produzione di Tito fino al 1991. Come sottolinea Enrico Crispolti nel catalogo della mostra: «Per una decina d'anni, fra i primissimi Settanta e l'esordio degli Ottanta (…) Tito ha lavorato, sempre appunto in legno, su forme simboliche nel rapporto fra superfici ampie e puntualizzazioni di determinanti evidenze segnico-totemiche, ironiche, fantastiche, mitiche (...). Ora ogni simbolismo è invece caduto, in questa sua nuovissima scultura; il segno puro, assoluto, costruendovi nell'iterazione serrata e incalzante la propria struttura affermativa».[22]
Nel 1987, espone, negli spazi di Sala 1, "La Grande Scultura", presentata nell'omonimo catalogo da Filiberto Menna.[23] Nel 1990, in occasione della celebrazione del cinquecentenario della nascita di Ignazio di Loyola, realizza una decorazione in terracotta di trenta metri per l'abside della cappella del collegio Massimo all'EUR.[24]
Nel 1991, al Palazzo dei Consoli di Gubbio, viene inaugurata la mostra itinerante "Le Grandi Sculture" che prosegue fino al 1994. Nel 1995, ha luogo a Roma, presso la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, una nuova mostra personale ("Semi della Forma, Ultime sculture"): la forma dell'uovo, quale archetipo simbolico, viene reinterpretata da Tito avvalendosi di materiali quali la terracotta, il legno, l'alluminio e il rame; le sculture, nelle intenzioni dell'artista, “dialogano ritmicamente” con le colonne di granito dell'imponente struttura architettonica della basilica.[25]
Tra il 2002 e il 2005, realizza un altro importante lavoro di decorazione: un mosaico di 150 m² per la cripta del Santuario di Santa Maria Goretti a Nettuno. Nel 2004, realizza e colloca le stazioni per la Via Crucis nei Sassi di Matera. Il 19 agosto 2014, in provincia di Perugia, inaugura la 28 edizione di "Scultori a Brufa, la strada del vino e dell'arte", dove vedrà prendere forma la sua più grande installazione scultorea dal titolo "Vibrazioni". Questa opera alta 6 metri e larga 2 è la prima opera in acciaio inox riproducente uno dei motivi ricorrenti nelle sue precedenti grandi sculture in legno.
Note
1. ^ Tito Amodei:"Sono un frate e sono un pittore, ma trovo di pessimo gusto l'arte sacra", su m.repubblica.it, La Repubblica, 27 dicembre 2015. URL consultato il 27 dicembre 2015 (archiviato dall'url originale il 5 gennaio 2016).
2. ^ Come quelle seguite alla mostra-dibattito "Arte, Artigianato e cattivo gusto" del marzo-aprile 1971 e alla pubblicazione, sempre nello stesso anno, di "L'Arte Sacra oggi", un volume che raccoglie una serie di articoli scritti da Tito tra il 1965 e il 1970 in cui denuncia «la situazione depressa del settore in Italia e l'invasione del kitsch nelle chiese» (Tito. Opere dal 1979 al 2005, p. 73).
3. ^ Gioia Pica, Tito Amodei. Tautologia di una scultura Archiviato il 7 ottobre 2007 in Internet Archive., da luxflux.net, 2003.
4. ^ Giuseppe Appella, Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., pp. 7-9.
5. ^ Costantino Dardi, nel catalogo per la mostra "Grandi Sculture", Gubbio 1991. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, pp. 94-95.
6. ^ "Tito. Opere dal 1979 al 2005" (Roma, 2006) a cura di Giuseppe Appella.
7. ^ Biografia (p. 4) nel sito dello scultore.
8. ^ Vedi le mostre: "Tito, Scultura, Pittura, Grafica 1962-2000" (Termoli 2000, a cura di Simonetta Lux) e "Tito. Il Segno. Grafica dagli anni Settanta ad oggi" (Roma, 2007, a cura di Antonello Rubini).
9. ^ Muore a Roma all’età di 91 anni Tito Amodei, l’artista religioso della Scala Santa, su artribune.com, 31 gennaio 2018.
10. ^ Scompare l’artista passionista padre Tito Amodei, le esequie al Monte Argentario, su ilgiunco.net, Il Giunco.net Quotidiano della Maremma, 31 gennaio 2018.
11. ^ Colli a Volturno: è morto a Roma il grande artista Padre Tito Amodei, su newsdellavalle.com, 31 gennaio 2018.
12. ^ Morto Amodei, scultore della fede, su corriere.it, 31 gennaio 2018.
13. ^ Dall'introduzione di "50 artisti per la Passione". In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 68.
14. ^ Ibidem.
15. ^ Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 7.
16. ^ Cicli scultorei in diverse chiese italiane a Prato, Nettuno, Milano, Roma, Monte Argentario, Ravenna, L'Aquila, Avezzano, Città del Vaticano, Venezia; il ciclo di affreschi della chiesa di Itabuna in Brasile; svariate decine di mostre personali e collettive (tra le altre: "II Esposizione Italo Giapponese" di Osaka (1973); personali a Innsbruck (1979) e Colonia (1985); diverse edizioni delle biennali d'arte sacra di Pescara e Venezia (dal 1986 al 2008)). Fonti: R. Giulieni, A. Pisilli, Vita, opere, fortuna critica in Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., pp. 63-118.
17. ^ Che ospita la Comunità Passionista dove già risiedeva dal novembre del 1966.
18. ^ «Due figure (...) se sono protagoniste di un dramma trovano adeguata soluzione formale nell'aggressività espressionistica di molta ricerca dell'arte contemporanea» (estratto dal catalogo della mostra). «Le Deposizioni (...) sono rigide strutture architettoniche in cui si concentra l'idea e perciò spoglie di particolari propri del modellato anatomico così che la tragicità raggiunge un tasso elevatissimo» (Gualtiero Da Vià, L'Osservatore Romano, 31 marzo 1988). In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit. p. 75 e p. 88.
19. ^ Gerhard Kolberg (Museo Ludwig). "Tito Amodei, Skulptur". Istituto Italiano di Cultura. Colonia, 1985. Altri riferimenti per il paragrafo: Sandra Orienti, catalogo alla mostra "Tito - scultura grafica", 1978; Enrico Crispolti, catalogo alla mostra "Sculture di segni", 1985; Gualtiero Da Vià, ibidem. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit. p. 76, pp. 81-85, p. 88.
20. ^ Vedi: Enrico Crispolti, catalogo della mostra "Sculture di segni", Edizioni Sala 1, 1985.
21. ^ T. Amodei, R. Andreassi, Il Segno, Edizioni Sala 1, Roma, novembre 1984. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 80.
22. ^ Enrico Crispolti, catalogo della mostra Sculture di segni, Edizioni Sala 1, Roma 1985. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 81.
23. ^ Filiberto Menna, La grande scultura, catalogo della mostra, Edizioni Sala 1, Roma, 1987.
24. ^ AA.VV., 30 metri di storie nella chiesa del Massimo, Edizioni Stauròs, 1999.
25. ^ Massimo Carboni, Semi della forma, catalogo della mostra, Edizioni Accademia degli Incolti, Roma 1991. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 100.
Bibliografia
Tito, Le sculture, Edizioni Sala 1, Roma, 1976
· Massimo Carboni, Tito. Semi della Forma. Edizioni Accademia degli Incolti, Roma, 1995
· Giuseppe Appella, Tito. Opere dal 1979 al 2005. Edizioni della Cometa, Roma, 2005
AVVENIRE - Intervista
L'artista padre Tito Amodei: il segno che fa la differenza
Alessandro Beltrami martedì 8 marzo 2016
Parla il padre passionista e scultore: «La Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i più alti misteri della fede al kitsch più deprimente. Così manca l’anima»
Tutto ha avuto inizio con un segno. Padre Tito la chiama «un’epifania». Aveva sette anni: «Mio padre, un contadino, disegnò sul quaderno un asinello. Sul foglio bianco vidi prendere vita una forma. Fu uno sgomento e un’illuminazione». La magia di quel segno, nella luce della campagna molisana dove è nato nel 1936, Tito Amodei non l’ha più dimenticata e l’ha inseguita per tutta la sua vita. Anche oggi, sulla soglia dei 90 anni che compirà l’11 marzo: «Ogni giorno faccio qualcosa. Fermo non ci sto…». Tito Amodei è padre passionista e artista. Il suo studio, ai piedi della Scala Santa a Roma, è la sua cella. Vi scende ogni mattina, dopo la Messa. Ci è arrivato nel 1966 da Firenze, dove per volontà dei superiori aveva studiato all’Accademia, nelle classi di Primo Conti e Giuseppe Viviani. Le stanze traboccano di opere. Bronzi, gessi e dipinti carichi di energia espressionista degli anni 60, totem lignei degli anni 70, le geometrie e le forme che si fanno sempre più pure a partire dagli anni 80. Negli spazi annessi nel 1970 Tito ha fondato Sala Uno, dove ha organizzato mostre di artisti come Wotruba e Matta. Padre Amodei ha esposto in tutto il mondo, da New York a Baghdad. Ha realizzato sculture, mosaici e vetrate in molte chiese (suo è il tabernacolo della cappella di Santa Marta in Vaticano). Suoi lavori sono conservati ai Musei Vaticani, allo Smak di Gand, all’Albertina di Vienna, al Museo di arte moderna di Tel Aviv. Ha sempre cercato di fare arte senza etichette, che fosse una Deposizione o un’opera astratta: «L’artista vero, o che presume di esserlo, fa le cose indipendentemente dal soggetto. Io ho cercato sempre di sostenere il mio carattere, il mio stile». Ma se tocchi il rapporto tra sacro e contemporaneo, un tema su cui si batte fin da prima del Concilio, gli guizza lo sguardo: «Mi mette la miccia sotto i piedi». Accendiamola.
Padre Tito, lei nel 1971 realizzò una mostra provocatoria dal titolo Arte, artigianato e cattivo gusto. Perché?
«Il problema è molto più profondo di quanto si pensi. In questo modo le immagini rischiano di introdurre una deviazione al dogma. Bisogna dirlo in modo esplicito, perché possa servire a qualcosa: la Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i misteri più alti della fede al kitsch più deprimente. Oggi il prodotto per il culto si trova già confezionato in modo banale, ovvio e scontato nei negozi di articoli religiosi. Siamo arrivati a un punto che la Chiesa dei primi secoli avrebbe condannato come eresia. Abbiamo ridotto la Madre di Dio a un’immagine senza corpo e senz’anima, per non dire di peggio».
Che caratteristiche dovrebbe avere un’opera per un luogo di culto?
«Se le dicessi che deve essere autentica sarei troppo vago. I parroci e i fedeli chiedono che l’immagine sia così o cosà, che rappresenti questo o quello. È tutto sbagliato. Alla fine è un problema di forma, non di soggetto».
E quella è responsabilità dell’artista.
«Puoi fare santa Teresa o un angelo, ma se la forma è mancante non dici nulla. All’inizio parti con l’imitazione della natura, e a un tratto vedi che il segno è emanazione di quello che sei. Poi ti puoi organizzare per decorare la Sistina, ma non conta quello che rappresenti quanto il come. È il segno che dà vita e senso alla figura».
Capita di vedere artisti capaci, quando creano per un luogo di culto, rinunciare al proprio linguaggio: anche senza richiesta esplicita...
«Vede (sorride, ndr), in questo studio ci sono molti invenduti... Non è che tutti i pittori vivano nell’oro. Il mio maestro Primo Conti ogni tanto diceva: “Questo è per la forchetta”. Lui sapeva di compromettersi con la sua etica, ma bisognava pur mangiare. Per un artista è faticoso rinunciare a se stesso. Ma resta sempre più faticoso essere sincero e autentico».
Negli anni ’60 lei bussava alle porte degli artisti per chiedere quale fosse il loro rapporto con il sacro. Che risposte riceveva?
«Nel 1962 ho pubblicato il volume 50 artisti per la Passione. Con molti sono andato a parlare in prima persona, da Carrà a Vedova, a chi non potevo scrivevo. La maggiore parte si meravigliava di questo fraticello che andava a chiedere come vedevano il sacro. Alcuni rispondevano in modo strafottente, altri evasivamente. La verità è che gli artisti percepivano soprattutto il disinteresse nei loro confronti da parte della Chiesa. E poi in quegli anni chi era di sinistra lo era in modo aggressivo. A me non interessava. Ma anche tra i cattolici, sa, non era facile».
Quali sono gli incontri che l’hanno più colpita?
«Marino Marini, era il mio punto di riferimento come scultore. A Manzù portai il mio libro, in cui c’erano sue opere: “Io non ho fatto cose sacre – esclamò – non sono uno scultore sacro!”. E poi Sebastian Matta. Stava a Tarquinia. Il suo segretario mi disse che avrei avuto a disposizione un quarto d’ora. Andai alle tre di pomeriggio e rimasi fino alle tre di notte. Diventammo amici».
Se rifacesse il giro oggi pensa che troverebbe la stessa accoglienza?
«No, sono meno aggressivi. Ma non meno sfiduciati. Sulla committenza è cambiato poco».
Quando ha scoperto la scultura?
«Da ragazzino. Mio padre si faceva gli strumenti da sé, e allora anch’io combinavo qualcosa col coltellino e un pezzo di legno. Io poi ho un rapporto molto fisico con gli oggetti, quando faccio un’opera devo prenderla in mano: è una cosa innata. Ho bisogno di stare addosso alla materia. Ho trovato il mio strumento nell’accetta».
L’accetta è uno strumento impreciso, imprime soprattutto un segno. Come lavora?
«Libero il tronco dalle parti superflue. L’accetta, con quella lunghezza, con quel peso, è per me la protesi della mano. È una combinazione fisiologica e poetico-spirituale. Il colpo nella sua forza è proporzionato sempre all’obiettivo. Mi muovo in modo quasi automatico. La trovo uno strumento perfetto per un’epoca in cui è importante soprattutto il dialogo con la materia».
C’è molta distanza tra i suoi primi lavori e gli ultimi. Come ci è arrivato?
«In realtà è tutto consequenziale. Sono partito dal naturalismo e camminando ho sfrondato la forma e lo spazio. Eliminando la figura, la rappresentazione, ti trovi a capire che lo spazio è l’alveo in cui opera la forma. Alla fine della vita sento il bisogno di liberarmi delle appendici. Devo arrivare alla sostanza, all’origine delle cose».
In questo sfrondare, in questa ricerca dell’essenziale, c’è un parallelo tra il suo lavoro di scultore e quello interiore di religioso?
«Sì. Io vivo una stagione, l’ultima della mia vita, di simbiosi con le cose. Vede quest’opera (mostra una grande scultura composta da un volume a forma di uovo sospeso davanti a una parete curva, ndr). Questo è l’essenziale. È lo spazio che accoglie la forma e la forma che modifica lo spazio. A forza di levare si giunge alla purezza. Questo per me è l’ultimo lavoro, la sintesi di tutto il mio percorso».
È la sua opera finale?
«Lo vorrei proprio. Oltre c’è solo il silenzio».
Padre Tito, cosa è stata la vita?
«Sono grato al Signore di avermi chiamato. Se penso alla grandezza del mistero del sacerdozio, che ti fa partecipe di Cristo, non finisco mai di sorprendermi e anche di umiliarmi. Sono contento dell’arte. E di questi 90 anni...».
Ha un rimpianto, qualcosa che avrebbe voluto fare e non c’è riuscito?
«Avrei voluto farmi santo».
Ricordando Tito Amodei dI Sandro Sanna
L’artista e Padre Passionista, si è spento serenamente a Roma il 31 gennaio 2018, all’età di 91 anni
Del suo impetuoso fare, nel ricordo che ho di lui, non vi è spazio per il rumore che tanta energia avrebbe dovuto generare; è un ricordo fatto di sola visione. Sotto i vibranti colpi d’ascia, schegge di legno liberano il tronco dal superfluo, generando piani di vivida luce. Legno che odora di selva, forme che si affacciano al mondo, a volte dure e respingenti, dove rami ritti come stecche di biliardo incoronano un cubo d’aria, altre più appaganti, le grandi mele, i pesci colti nel loro guizzo, che sembrano trovarsi a loro agio anche fuor d’acqua, e quei soli dai raggi buoni. E ancora, il grande nudo, frontale e in contro luce San Giorgio e il drago, reso inoffensivo dalla lama che lo divide come foglia di palma; carte stese all’aria e il torchio sapientemente manovrato da Francesco China, che assisteva Tito nelle tirature xilografiche. Sculture, quadri, libri ovunque, una densa espressione di armonia, di insieme pulsante, questo era il clima nello studio di Tito, che nel 1974 mi ospitò generosamente per un intero anno, allor ché finito il servizio militare mi trovai senza un luogo dove poter lavorare, lui fu pronto ad accogliermi, ad ascoltarmi, a porgermi, con la sensibile umiltà che lo ha sempre distinto, tutto il suo sapere, con una capacità di ascolto rara, e un farti sentire sempre a tuo agio, quasi invertendo le parti, chiedendomi spesso il parere su ciò che faceva e se l’osservazione era efficace la metteva in atto. Si parlava tanto di pittura, d’arte in generale, delle opere viste, comparando tra loro artisti e linguaggi. Giornate e giornate a lavorare con l’intensità martellante di chi è ossessionato dal gesto, dal colore, dall’odore della pittura, divorati da certezze e dubbi. Ma la cosa più appagante, era la fiducia che riponeva in te. In quell’anno Primo Conti (di cui Tito era stato allievo a Firenze) si affidò a lui per curare l’allestimento di una importante antologica tenutasi presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, e Tito mi volle al suo fianco presentandomi come giovane artista di talento, disposto a collaborare a quell’impresa; partecipai in modo critico alla disposizione delle opere. Grande soddisfazione. L’anno successivo sempre in quel Palazzo, venni invitato alla X Quadriennale d’Arte, con tre opere realizzate proprio nel suo studio.
Sandro Sanna
Fonte: Giuseppe D'Acchioli -Wikipedia - Avvenire con Alessandro Beltrami - Sandro Sanna - Repubblica - Marisa Ranieri e Antonia Ranieri
Scrivere di Padre Tito (Ferdinando Amodei) è semplice e nel contempo difficile in quanto è patrimonio di tutti ed in tanti hanno scritto su di lui. Però come gruppo della Emigrazione Collese nel Mondo che gestisce il sito www.emigrazionecollesenelmondo.it vogliamo, anche se brevemente, dare anche il nostro contributo a questo grandissimo ed umile personaggio che ha dato tanto lustro a Colli a Volturno ed a tutti i collesi residenti e sparsi nel mondo. Nato a Colli a Volturno il 11 Marzo 1926 da Nicola ed Antonia Angelone, durante la sua adolescenza entrò in contatto con alcuni Padri Passionisti che erano a Colli per un periodo di missione e ed ebbero sul ragazzo un influsso particolare segnandolo positivamente. All’inizio degli anni quaranta, entrò nel seminario dei Passionisti, poi a Monte Argentario per il noviziato e poi Firenze. Nel 1953 venne ordinato sacerdote a Roma dedicandosi alla predicazione ed insegnamento. In seguito si dedicò all’arte pittorica e poi alla scultura. Durante la sua lunghissima vita da artista ha partecipato a numerose mostre di cui tante sono state le mostre personali o quelle da lui organizzate . Muore il 31 Gennaio 2018 .
Di seguito abbiamo volutamente riportato alcune ricostruzioni – testimonianze della sua vita, quanto compare su alcune fonti come di seguito:
- sulla pagina wikipedia a lui dedicata,
- una intervista dell’AVVENIRE realizzata da Alessandro Beltrami del 8 marzo 2016,
- Ricordando Tito Amodei di Sandro Sanna
Nota: Le foto sono tratte da Internet e quella del monumento ai caduti a Colli a Volturno dall’archivio privato di Giuseppe D’Acchioli, le altre trasmesse da Marisa Ranieri realizzate nel Maggio 2026 in occasione “della visita della comitiva collese a Padre Tito” organizzata da Michele D’Alessio ed Antonia Ranieri in occasione dei 90 anni di Padre Tito.
“Forte è rimasto il legame con la terra d’origine. In una recente intervista apparsa su La Repubblica scriveva del suo Molise: «Sono nato in provincia di Isernia. I miei erano povera gente. Con una piccola masseria e un po’ di terra da cui ricavare lo stretto necessario. Non c’erano molti discorsi, né libri. A parte la Bibbia, in casa circolava un romanzo che mio padre ci leggeva la sera: Dagli appennini alle Ande. Papà aveva fatto la terza elementare ma col tempo aveva imparato a leggere. Era orgoglioso quando prendeva tra le sue grandi mani il piccolo libro e con voce incerta iniziava il racconto. A volte si stancava. Dopo una giornata passata nei campi non era facile intrattenere i figli.”
Per una conoscenza esaustiva dell’artista consultare il sito web www.titoamodei.org
https://it.wikipedia.org/wiki/Tito_Amodei
https://www.fondazionetitoamodei.it
Tito Amodei, pseudonimo di Ferdinando Amodei (Colli a Volturno, 11 marzo 1926 – Roma, 31 gennaio 2018), è stato uno scultore, pittore, critico d'arte e religioso italiano.
In attività fino alla morte, nonostante l'età avanzata e la malattia di Parkinson che gli condizionò soprattutto l'uso di una mano,[1] ha operato dalla fine degli anni cinquanta prevalentemente come scultore nel campo dell'arte sacra e monumentale.
Attraverso mostre, conferenze e pubblicazioni, ha promosso l'arte sacra attraverso un dibattito aperto alle più innovative forme espressive, sebbene non scevro di controversie[2], portando nella pratica artistica il messaggio del concilio Vaticano II.
Nel corso degli anni, Tito dissolve progressivamente le componenti figurative e concettuali presenti nelle sue opere in favore di un'astrazione geometrica elaborata dalle forme base del cilindro e del piano e dalla ricerca dell'equilibrio prospettico e luministico di pesi e volumi con lo spazio circostante.[3][4][5] Le sue sculture più recenti - con l'eccezione parziale di quelle di committenza religiosa - sono strutture architettoniche in legno e meno frequentemente in bronzo e altri metalli, spesso di grandi dimensioni e commisurate per spazi aperti. Tra le sue opere figurano anche interventi decorativi per monumenti pubblici (come il monumento ai caduti di Colli a Volturno e San Giovanni a Piro) o santuari (santuario di San Gabriele dell'Addolorata).
Nel 2006, si è svolta una mostra dedicata alla sua produzione dal 1979 al 2005, comprendente sculture, disegni e incisioni, presso gli spazi espositivi del polo museale del Vittoriano a Roma.[6] Due sue opere sono conservate nella collezione di arte contemporanea del Palazzo della Farnesina. Altre opere dell'artista - sculture, dipinti, incisioni - sono conservate ai Musei Vaticani, al Museo Staurós di Isola del Gran Sasso d'Italia, allo SMAK di Gand, all'Albertina di Vienna e alla Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow, opera Spazio Forma Provvidenti (Italia, Molise - CB) presso il Maack [7]
Accanto alla produzione scultorea, è da menzionare anche quella grafica, dai disegni a matita su carta alle acqueforti e serigrafie[8] e la scenografia dello spettacolo teatrale "Gilgamesh", del 1999, per la regia di Shahroo Kheradmand.
È morto la mattina del 31 gennaio 2018 nella sua cella ai piedi della Scala Santa in Roma all'età di 91 anni. Le esequie si svolgono il 2 febbraio nella cappella di San Lorenzo in Palatio. È sepolto nel cimitero dei padri Passionisti a Monte Argentario.[9][10][11][12]
La formazione artistica e gli esordi
Abbraccia giovanissimo la vocazione religiosa dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali tenuto dai Padri Passionisti a Colli a Volturno. Tra il 1940 e il 1943, entra in seminario a Nettuno per gli studi ginnasiali e successivamente in noviziato presso il convento dei Passionisti di Monte Argentario dove assume il nome di Tito. Negli stessi anni compie privatamente, come autodidatta, anche le prime esperienze di scultura, pittura e disegno.
Pochi anni dopo si sposta a Firenze per gli studi teologici che si concluderanno a Roma nel 1953 con l'ordinazione sacerdotale, e a Fiesole, nel 1950, conosce il pittore Primo Conti con cui consolida nel tempo una duratura amicizia e che diventerà suo maestro all'Accademia di belle arti di Firenze tra il 1953 e il 1957. Risalgono sempre agli anni dell'accademia anche le frequentazioni, nella villa fiesolana di Conti, della scena artistica fiorentina e il progetto di una pubblicazione antologica sull'iconografia della Passione di Cristo nell'arte contemporanea che si concretizzerà nel 1962 con l'edizione di "50 artisti per la Passione".
Concluso il corso di studi, intraprende l'insegnamento umanistico nei licei della sua congregazione religiosa e parimenti l'attività espositiva che gli frutta i primi riconoscimenti (vince due edizioni del "Premio Costa d'Argento"). Fino al 1962, la sua produzione pubblica è ancora prevalentemente pittorica e confinata nell'ambito locale della provincia grossetana, ma risale all'estate del 1960 l'episodio della vita di Tito che fornisce a Giorgio Saviane lo spunto per il titolo della raccolta "La donna di legno" del 1979 e il soggetto di uno dei racconti che questa include: il minuto frate molisano rinviene sulla spiaggia di Orbetello un enorme tronco d'albero con cui realizza la sua prima scultura ("Il Grande Nudo", 1962-1964), un nudo di donna stilizzato dalla superficie nervosamente e minuziosamente scalpellata.
«Sulla spiaggia approdò un tronco di donna. Si torceva ancora non si sapeva per quali spasimi voluttuosi o di morte. Forse si poteva salvarla; le natiche poderose rivolte al cielo, le reni concave da atleta, la forza che emanava dai resti delle cosce spezzate, facevano sperare. [...] Un fraticello spuntò dall'orizzonte che l'umidità del mattino restringeva attorno alla tragedia.[...] Chi l'avesse uccisa era dunque un mistero, ma, certo, Tito l'aveva fatta rivivere; il tronco fermato nel suo fremito di morte, la testa più in là, sentimentalmente ricostruita, di prima della tragedia. Mi avvicinai meglio al ritratto: sotto al collo vidi improvvisamente risorgere i segni astratti di una realtà inferiore che violentava la serenità di quel volto per una più accesa dimensione. L'aveva dunque anche uccisa, Tito, piccolo ma onnipotente con il suo segno folle di ricerca e di ansia.»
La prima produzione scultorea
Nel 1961, Amodei apre un proprio studio a Firenze e la sua produzione acquista una più precisa connotazione sia dal punto di vista stilistico che da quello ideale e valoriale come espresso nel saggio di introduzione alla succitata antologia sul tema della passione: il dichiarato impegno per la rinascita dell'arte sacra in chiave moderna come espressione indipendente «da ogni soggezione di canone o di maniera e dall'interferenze protettive e vincolanti della società, che gli agevolerà una più immediata rispondenza alle mozioni dello spirito»[13] proprio in quanto "opera sacra" e non un «esclusivo e spicciolo mezzo di devozionale sollecitazione.»[14].
Queste intenzioni si iniziano a cogliere, a partire dagli anni sessanta, nella numerosa serie di "Deposizioni", sia dipinte che scolpite in legno o bronzo, e ne "Il Grande Nudo", tutte opere ancora chiaramente figurative, ma caratterizzate da una progressiva semplificazione del segno ed un'elevata tensione meditativa che «richiama da un lato gli espressionisti e dall'altra i neoprimitivisti alla Barlach».[15] (Appella, 2005)
Nel 1964, alla "Mostra del Documentario d'arte" della Biennale di Venezia, viene presentato "Passione di Cristo nell'arte contemporanea", un documentario del 1963, - tratto dal volume "50 artisti per la Passione" - di cui Tito cura la sceneggiatura e la fotografia.
Sempre nel 1964, con le personali di Prato e Torino - che riporta in catalogo il racconto di Saviane - e la partecipazione alla "II Mostra Nazionale dell'Incisione Sacra" di Firenze, lo scultore molisano ottiene un primo riconoscimento a livello nazionale e viene inserito nei cataloghi "Scultura Italiana Contemporanea" del 1965 (a cura di Gabriele Mandel) e "Arte Contemporanea Italiana" del 1966 (con un testo di Luigi Servolini). Inizia in questi anni la piena attività espositiva e di committenza in Italia e all'estero.[16]
Nel 1966 si trasferisce nell'attuale atelier, situato nel complesso del santuario della Scala Santa a Roma[17], nei locali che dovevano costituire originariamente la nuova cripta mai completata dell'edificio lateranense e che vengono successivamente riadattati per ospitare lo spazio artistico polivalente da lui promosso. Nell'aprile del 1970, con la mostra "Arazzi sulla Passione" di Enrico Accatino, viene inaugurato, accanto allo studio dello scultore, il Centro di Sperimentazione Artistica "Sala 1" e un teatro che svolgono tuttora attività culturali ed espositive nel campo dell'arte contemporanea.
Nel 1974 conosce il pittore cileno Sebastián Matta con cui realizza, a Roma, la mostra "Bella Ciao - Dare alla Vita una Luce". Nel dicembre 1975 organizza, negli spazi espositivi di Sala 1, una personale delle opere a soggetto sacro di Fritz Wotruba ("Wotruba e la dimensione sacra"), a pochi mesi dalla morte dello scultore austriaco.
Nel 1976 si tiene alla Sala 1, la personale "Tito - Le sculture". Alla carica drammatica espressa nelle "Deposizioni"[18], si affianca, per la prima volta, il tema del gioco fantastico che sarà presente anche negli anni ottanta: composizioni in legno e bronzo in cui forme naturali dal significato simbolico (le mele, il pesce, l'uovo, il sole, l'uccello) sono incluse o imprigionate in architetture geometriche che, con i giochi di luce e ombra creati dagli elementi scultorei e i movimenti dell'osservatore, fanno "un uso espressivo della luce".[19]
Le grandi sculture
Nei primi anni 1980, le sue opere mostrano una crescente essenzialità come nella scultura-totem "Albero nuovo" del 1982.[20] «Le mie ultime sculture (1983/84) – come dichiara l'artista, nel 1984, a proposito delle ultime realizzazioni – segnano il punto di arrivo di venti anni di lavoro. (...) Ora è solo il segno che crea un'architettura e qualche volta si impone alla medesima. Ma è un segno che modellato in legno si fa corpo e come tale diventa luce in opposizione costante con la sua ombra, ottenendo un blocco serrato e libero insieme».[21]
In occasione della mostra "Sculture di segni", tenutasi a Roma alla galleria Sala 1 nel 1985, diverrà più esplicita questa nuova concezione della scultura come segno ed architettura: si tratta di opere caratterizzate da una ripetizione ritmica e fitta di elementi lignei che domineranno la produzione di Tito fino al 1991. Come sottolinea Enrico Crispolti nel catalogo della mostra: «Per una decina d'anni, fra i primissimi Settanta e l'esordio degli Ottanta (…) Tito ha lavorato, sempre appunto in legno, su forme simboliche nel rapporto fra superfici ampie e puntualizzazioni di determinanti evidenze segnico-totemiche, ironiche, fantastiche, mitiche (...). Ora ogni simbolismo è invece caduto, in questa sua nuovissima scultura; il segno puro, assoluto, costruendovi nell'iterazione serrata e incalzante la propria struttura affermativa».[22]
Nel 1987, espone, negli spazi di Sala 1, "La Grande Scultura", presentata nell'omonimo catalogo da Filiberto Menna.[23] Nel 1990, in occasione della celebrazione del cinquecentenario della nascita di Ignazio di Loyola, realizza una decorazione in terracotta di trenta metri per l'abside della cappella del collegio Massimo all'EUR.[24]
Nel 1991, al Palazzo dei Consoli di Gubbio, viene inaugurata la mostra itinerante "Le Grandi Sculture" che prosegue fino al 1994. Nel 1995, ha luogo a Roma, presso la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, una nuova mostra personale ("Semi della Forma, Ultime sculture"): la forma dell'uovo, quale archetipo simbolico, viene reinterpretata da Tito avvalendosi di materiali quali la terracotta, il legno, l'alluminio e il rame; le sculture, nelle intenzioni dell'artista, “dialogano ritmicamente” con le colonne di granito dell'imponente struttura architettonica della basilica.[25]
Tra il 2002 e il 2005, realizza un altro importante lavoro di decorazione: un mosaico di 150 m² per la cripta del Santuario di Santa Maria Goretti a Nettuno. Nel 2004, realizza e colloca le stazioni per la Via Crucis nei Sassi di Matera. Il 19 agosto 2014, in provincia di Perugia, inaugura la 28 edizione di "Scultori a Brufa, la strada del vino e dell'arte", dove vedrà prendere forma la sua più grande installazione scultorea dal titolo "Vibrazioni". Questa opera alta 6 metri e larga 2 è la prima opera in acciaio inox riproducente uno dei motivi ricorrenti nelle sue precedenti grandi sculture in legno.
Note
1. ^ Tito Amodei:"Sono un frate e sono un pittore, ma trovo di pessimo gusto l'arte sacra", su m.repubblica.it, La Repubblica, 27 dicembre 2015. URL consultato il 27 dicembre 2015 (archiviato dall'url originale il 5 gennaio 2016).
2. ^ Come quelle seguite alla mostra-dibattito "Arte, Artigianato e cattivo gusto" del marzo-aprile 1971 e alla pubblicazione, sempre nello stesso anno, di "L'Arte Sacra oggi", un volume che raccoglie una serie di articoli scritti da Tito tra il 1965 e il 1970 in cui denuncia «la situazione depressa del settore in Italia e l'invasione del kitsch nelle chiese» (Tito. Opere dal 1979 al 2005, p. 73).
3. ^ Gioia Pica, Tito Amodei. Tautologia di una scultura Archiviato il 7 ottobre 2007 in Internet Archive., da luxflux.net, 2003.
4. ^ Giuseppe Appella, Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., pp. 7-9.
5. ^ Costantino Dardi, nel catalogo per la mostra "Grandi Sculture", Gubbio 1991. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, pp. 94-95.
6. ^ "Tito. Opere dal 1979 al 2005" (Roma, 2006) a cura di Giuseppe Appella.
7. ^ Biografia (p. 4) nel sito dello scultore.
8. ^ Vedi le mostre: "Tito, Scultura, Pittura, Grafica 1962-2000" (Termoli 2000, a cura di Simonetta Lux) e "Tito. Il Segno. Grafica dagli anni Settanta ad oggi" (Roma, 2007, a cura di Antonello Rubini).
9. ^ Muore a Roma all’età di 91 anni Tito Amodei, l’artista religioso della Scala Santa, su artribune.com, 31 gennaio 2018.
10. ^ Scompare l’artista passionista padre Tito Amodei, le esequie al Monte Argentario, su ilgiunco.net, Il Giunco.net Quotidiano della Maremma, 31 gennaio 2018.
11. ^ Colli a Volturno: è morto a Roma il grande artista Padre Tito Amodei, su newsdellavalle.com, 31 gennaio 2018.
12. ^ Morto Amodei, scultore della fede, su corriere.it, 31 gennaio 2018.
13. ^ Dall'introduzione di "50 artisti per la Passione". In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 68.
14. ^ Ibidem.
15. ^ Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 7.
16. ^ Cicli scultorei in diverse chiese italiane a Prato, Nettuno, Milano, Roma, Monte Argentario, Ravenna, L'Aquila, Avezzano, Città del Vaticano, Venezia; il ciclo di affreschi della chiesa di Itabuna in Brasile; svariate decine di mostre personali e collettive (tra le altre: "II Esposizione Italo Giapponese" di Osaka (1973); personali a Innsbruck (1979) e Colonia (1985); diverse edizioni delle biennali d'arte sacra di Pescara e Venezia (dal 1986 al 2008)). Fonti: R. Giulieni, A. Pisilli, Vita, opere, fortuna critica in Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., pp. 63-118.
17. ^ Che ospita la Comunità Passionista dove già risiedeva dal novembre del 1966.
18. ^ «Due figure (...) se sono protagoniste di un dramma trovano adeguata soluzione formale nell'aggressività espressionistica di molta ricerca dell'arte contemporanea» (estratto dal catalogo della mostra). «Le Deposizioni (...) sono rigide strutture architettoniche in cui si concentra l'idea e perciò spoglie di particolari propri del modellato anatomico così che la tragicità raggiunge un tasso elevatissimo» (Gualtiero Da Vià, L'Osservatore Romano, 31 marzo 1988). In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit. p. 75 e p. 88.
19. ^ Gerhard Kolberg (Museo Ludwig). "Tito Amodei, Skulptur". Istituto Italiano di Cultura. Colonia, 1985. Altri riferimenti per il paragrafo: Sandra Orienti, catalogo alla mostra "Tito - scultura grafica", 1978; Enrico Crispolti, catalogo alla mostra "Sculture di segni", 1985; Gualtiero Da Vià, ibidem. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit. p. 76, pp. 81-85, p. 88.
20. ^ Vedi: Enrico Crispolti, catalogo della mostra "Sculture di segni", Edizioni Sala 1, 1985.
21. ^ T. Amodei, R. Andreassi, Il Segno, Edizioni Sala 1, Roma, novembre 1984. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 80.
22. ^ Enrico Crispolti, catalogo della mostra Sculture di segni, Edizioni Sala 1, Roma 1985. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 81.
23. ^ Filiberto Menna, La grande scultura, catalogo della mostra, Edizioni Sala 1, Roma, 1987.
24. ^ AA.VV., 30 metri di storie nella chiesa del Massimo, Edizioni Stauròs, 1999.
25. ^ Massimo Carboni, Semi della forma, catalogo della mostra, Edizioni Accademia degli Incolti, Roma 1991. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., p. 100.
Bibliografia
Tito, Le sculture, Edizioni Sala 1, Roma, 1976
· Massimo Carboni, Tito. Semi della Forma. Edizioni Accademia degli Incolti, Roma, 1995
· Giuseppe Appella, Tito. Opere dal 1979 al 2005. Edizioni della Cometa, Roma, 2005
AVVENIRE - Intervista
L'artista padre Tito Amodei: il segno che fa la differenza
Alessandro Beltrami martedì 8 marzo 2016
Parla il padre passionista e scultore: «La Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i più alti misteri della fede al kitsch più deprimente. Così manca l’anima»
Tutto ha avuto inizio con un segno. Padre Tito la chiama «un’epifania». Aveva sette anni: «Mio padre, un contadino, disegnò sul quaderno un asinello. Sul foglio bianco vidi prendere vita una forma. Fu uno sgomento e un’illuminazione». La magia di quel segno, nella luce della campagna molisana dove è nato nel 1936, Tito Amodei non l’ha più dimenticata e l’ha inseguita per tutta la sua vita. Anche oggi, sulla soglia dei 90 anni che compirà l’11 marzo: «Ogni giorno faccio qualcosa. Fermo non ci sto…». Tito Amodei è padre passionista e artista. Il suo studio, ai piedi della Scala Santa a Roma, è la sua cella. Vi scende ogni mattina, dopo la Messa. Ci è arrivato nel 1966 da Firenze, dove per volontà dei superiori aveva studiato all’Accademia, nelle classi di Primo Conti e Giuseppe Viviani. Le stanze traboccano di opere. Bronzi, gessi e dipinti carichi di energia espressionista degli anni 60, totem lignei degli anni 70, le geometrie e le forme che si fanno sempre più pure a partire dagli anni 80. Negli spazi annessi nel 1970 Tito ha fondato Sala Uno, dove ha organizzato mostre di artisti come Wotruba e Matta. Padre Amodei ha esposto in tutto il mondo, da New York a Baghdad. Ha realizzato sculture, mosaici e vetrate in molte chiese (suo è il tabernacolo della cappella di Santa Marta in Vaticano). Suoi lavori sono conservati ai Musei Vaticani, allo Smak di Gand, all’Albertina di Vienna, al Museo di arte moderna di Tel Aviv. Ha sempre cercato di fare arte senza etichette, che fosse una Deposizione o un’opera astratta: «L’artista vero, o che presume di esserlo, fa le cose indipendentemente dal soggetto. Io ho cercato sempre di sostenere il mio carattere, il mio stile». Ma se tocchi il rapporto tra sacro e contemporaneo, un tema su cui si batte fin da prima del Concilio, gli guizza lo sguardo: «Mi mette la miccia sotto i piedi». Accendiamola.
Padre Tito, lei nel 1971 realizzò una mostra provocatoria dal titolo Arte, artigianato e cattivo gusto. Perché?
«Il problema è molto più profondo di quanto si pensi. In questo modo le immagini rischiano di introdurre una deviazione al dogma. Bisogna dirlo in modo esplicito, perché possa servire a qualcosa: la Chiesa si è fatta complice di un artigianato industriale che deprime i misteri più alti della fede al kitsch più deprimente. Oggi il prodotto per il culto si trova già confezionato in modo banale, ovvio e scontato nei negozi di articoli religiosi. Siamo arrivati a un punto che la Chiesa dei primi secoli avrebbe condannato come eresia. Abbiamo ridotto la Madre di Dio a un’immagine senza corpo e senz’anima, per non dire di peggio».
Che caratteristiche dovrebbe avere un’opera per un luogo di culto?
«Se le dicessi che deve essere autentica sarei troppo vago. I parroci e i fedeli chiedono che l’immagine sia così o cosà, che rappresenti questo o quello. È tutto sbagliato. Alla fine è un problema di forma, non di soggetto».
E quella è responsabilità dell’artista.
«Puoi fare santa Teresa o un angelo, ma se la forma è mancante non dici nulla. All’inizio parti con l’imitazione della natura, e a un tratto vedi che il segno è emanazione di quello che sei. Poi ti puoi organizzare per decorare la Sistina, ma non conta quello che rappresenti quanto il come. È il segno che dà vita e senso alla figura».
Capita di vedere artisti capaci, quando creano per un luogo di culto, rinunciare al proprio linguaggio: anche senza richiesta esplicita...
«Vede (sorride, ndr), in questo studio ci sono molti invenduti... Non è che tutti i pittori vivano nell’oro. Il mio maestro Primo Conti ogni tanto diceva: “Questo è per la forchetta”. Lui sapeva di compromettersi con la sua etica, ma bisognava pur mangiare. Per un artista è faticoso rinunciare a se stesso. Ma resta sempre più faticoso essere sincero e autentico».
Negli anni ’60 lei bussava alle porte degli artisti per chiedere quale fosse il loro rapporto con il sacro. Che risposte riceveva?
«Nel 1962 ho pubblicato il volume 50 artisti per la Passione. Con molti sono andato a parlare in prima persona, da Carrà a Vedova, a chi non potevo scrivevo. La maggiore parte si meravigliava di questo fraticello che andava a chiedere come vedevano il sacro. Alcuni rispondevano in modo strafottente, altri evasivamente. La verità è che gli artisti percepivano soprattutto il disinteresse nei loro confronti da parte della Chiesa. E poi in quegli anni chi era di sinistra lo era in modo aggressivo. A me non interessava. Ma anche tra i cattolici, sa, non era facile».
Quali sono gli incontri che l’hanno più colpita?
«Marino Marini, era il mio punto di riferimento come scultore. A Manzù portai il mio libro, in cui c’erano sue opere: “Io non ho fatto cose sacre – esclamò – non sono uno scultore sacro!”. E poi Sebastian Matta. Stava a Tarquinia. Il suo segretario mi disse che avrei avuto a disposizione un quarto d’ora. Andai alle tre di pomeriggio e rimasi fino alle tre di notte. Diventammo amici».
Se rifacesse il giro oggi pensa che troverebbe la stessa accoglienza?
«No, sono meno aggressivi. Ma non meno sfiduciati. Sulla committenza è cambiato poco».
Quando ha scoperto la scultura?
«Da ragazzino. Mio padre si faceva gli strumenti da sé, e allora anch’io combinavo qualcosa col coltellino e un pezzo di legno. Io poi ho un rapporto molto fisico con gli oggetti, quando faccio un’opera devo prenderla in mano: è una cosa innata. Ho bisogno di stare addosso alla materia. Ho trovato il mio strumento nell’accetta».
L’accetta è uno strumento impreciso, imprime soprattutto un segno. Come lavora?
«Libero il tronco dalle parti superflue. L’accetta, con quella lunghezza, con quel peso, è per me la protesi della mano. È una combinazione fisiologica e poetico-spirituale. Il colpo nella sua forza è proporzionato sempre all’obiettivo. Mi muovo in modo quasi automatico. La trovo uno strumento perfetto per un’epoca in cui è importante soprattutto il dialogo con la materia».
C’è molta distanza tra i suoi primi lavori e gli ultimi. Come ci è arrivato?
«In realtà è tutto consequenziale. Sono partito dal naturalismo e camminando ho sfrondato la forma e lo spazio. Eliminando la figura, la rappresentazione, ti trovi a capire che lo spazio è l’alveo in cui opera la forma. Alla fine della vita sento il bisogno di liberarmi delle appendici. Devo arrivare alla sostanza, all’origine delle cose».
In questo sfrondare, in questa ricerca dell’essenziale, c’è un parallelo tra il suo lavoro di scultore e quello interiore di religioso?
«Sì. Io vivo una stagione, l’ultima della mia vita, di simbiosi con le cose. Vede quest’opera (mostra una grande scultura composta da un volume a forma di uovo sospeso davanti a una parete curva, ndr). Questo è l’essenziale. È lo spazio che accoglie la forma e la forma che modifica lo spazio. A forza di levare si giunge alla purezza. Questo per me è l’ultimo lavoro, la sintesi di tutto il mio percorso».
È la sua opera finale?
«Lo vorrei proprio. Oltre c’è solo il silenzio».
Padre Tito, cosa è stata la vita?
«Sono grato al Signore di avermi chiamato. Se penso alla grandezza del mistero del sacerdozio, che ti fa partecipe di Cristo, non finisco mai di sorprendermi e anche di umiliarmi. Sono contento dell’arte. E di questi 90 anni...».
Ha un rimpianto, qualcosa che avrebbe voluto fare e non c’è riuscito?
«Avrei voluto farmi santo».
Ricordando Tito Amodei dI Sandro Sanna
L’artista e Padre Passionista, si è spento serenamente a Roma il 31 gennaio 2018, all’età di 91 anni
Del suo impetuoso fare, nel ricordo che ho di lui, non vi è spazio per il rumore che tanta energia avrebbe dovuto generare; è un ricordo fatto di sola visione. Sotto i vibranti colpi d’ascia, schegge di legno liberano il tronco dal superfluo, generando piani di vivida luce. Legno che odora di selva, forme che si affacciano al mondo, a volte dure e respingenti, dove rami ritti come stecche di biliardo incoronano un cubo d’aria, altre più appaganti, le grandi mele, i pesci colti nel loro guizzo, che sembrano trovarsi a loro agio anche fuor d’acqua, e quei soli dai raggi buoni. E ancora, il grande nudo, frontale e in contro luce San Giorgio e il drago, reso inoffensivo dalla lama che lo divide come foglia di palma; carte stese all’aria e il torchio sapientemente manovrato da Francesco China, che assisteva Tito nelle tirature xilografiche. Sculture, quadri, libri ovunque, una densa espressione di armonia, di insieme pulsante, questo era il clima nello studio di Tito, che nel 1974 mi ospitò generosamente per un intero anno, allor ché finito il servizio militare mi trovai senza un luogo dove poter lavorare, lui fu pronto ad accogliermi, ad ascoltarmi, a porgermi, con la sensibile umiltà che lo ha sempre distinto, tutto il suo sapere, con una capacità di ascolto rara, e un farti sentire sempre a tuo agio, quasi invertendo le parti, chiedendomi spesso il parere su ciò che faceva e se l’osservazione era efficace la metteva in atto. Si parlava tanto di pittura, d’arte in generale, delle opere viste, comparando tra loro artisti e linguaggi. Giornate e giornate a lavorare con l’intensità martellante di chi è ossessionato dal gesto, dal colore, dall’odore della pittura, divorati da certezze e dubbi. Ma la cosa più appagante, era la fiducia che riponeva in te. In quell’anno Primo Conti (di cui Tito era stato allievo a Firenze) si affidò a lui per curare l’allestimento di una importante antologica tenutasi presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, e Tito mi volle al suo fianco presentandomi come giovane artista di talento, disposto a collaborare a quell’impresa; partecipai in modo critico alla disposizione delle opere. Grande soddisfazione. L’anno successivo sempre in quel Palazzo, venni invitato alla X Quadriennale d’Arte, con tre opere realizzate proprio nel suo studio.
Sandro Sanna
Fonte: Giuseppe D'Acchioli -Wikipedia - Avvenire con Alessandro Beltrami - Sandro Sanna - Repubblica - Marisa Ranieri e Antonia Ranieri